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Quel che ho visto, udito, appresso,… – Giorgio Agamben

Pubblichiamo di seguito alcune riflessioni sparse del filosofo Giorgio Agamben, tratte dal suo libro più personale. Buona lettura!

QUEL CHE HO VISTO, UDITO, APPRESO… (2022)

di Giorgio Agamben

Da Spinoza ho appreso che noi consideriamo le cose in due modi: in quanto le vediamo in Dio come eterne e in quanto le conosciamo nello spazio e nel tempo, limitate, finite e come recise da Dio. Ma amare veramente qualcuno significa vederlo simultaneamente in Dio e nel tempo. Tenerezza e ombra del suo esistere qui e ora – ambra e cristallo del suo essere in Dio.

Dall’infanzia [ho imparato] che la parola è la sola cosa che ci resta di quando non eravamo ancora parlanti. Tutto il resto lo abbiamo perduto – ma la parola è la reliquia ancestrale che ne custodisce il ricordo, la piccola porta attraverso la quale possiamo per un attimo farvi ritorno.

Da Mazzarino ho imparato che la propria vocazione è il proprio limite. Proprio là dove siamo piú ispirati e crediamo di andare piú a fondo – là conosciamo anche il nostro limite. Per questo è importante saper mettere in questione la propria vocazione e, appena possibile, revocarla.

Nello specchio ho visto che fra noi e noi stessi c’è un piccolo scarto, che è misurato esattamente dal tempo che mettiamo a riconoscere la nostra immagine. Da quel minuscolo varco provengono, con tutta la psicologia, le nostre nevrosi e paure, i trionfi e le cadute dell’io. Se ci fossimo riconosciuti istantaneamente, se non ci fosse stato quel fugace intermezzo, noi saremmo come gli angeli, del tutto privi di psicologia. E non ci sarebbe il romanzo, che racconta – questo è la psicologia – il tempo che i personaggi impiegano a riconoscere e a disconoscere se stessi.

Dall’abbate da Fiore: che il nuovo non viene mai attraverso la distruzione del vecchio, perché l’età che viene non annienta quella che passa, ma compie la figura che è contenuta in essa. E che le età del mondo si succedono come erba, stelo e spiga.

Dal vivere insieme: che l’esistenza dell’altro è un enigma che non può essere sciolto, ma solo condiviso. La condivisione di questo enigma, gli uomini la chiamano amore.

Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare.

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