Vai al contenuto

L’ulivo pensante – Michiele Diomede

È con estremo piacere che pubblichiamo un racconto inedito di un autore e amico di vecchia data di Flamingo Edizioni, Michele Diomede (potete trovare i suoi testi qui: Michele Diomede). Buona lettura!

L’ULIVO PENSANTE (1940)

di Dino Buzzati

Già avverto il passo del boscaiolo, tra qualche istante sarà qui per controllare il segno che egli stesso ha inciso nella mia carne. Tocca dunque a me saggiare il filo tagliente della sua scure, essendosi già compiuto il giro del sole. Ignoro i motivi per cui è stata decretata la mia fine, eppure ancora spando intorno larghe ombre di frescura, e con i primi freddi, se appena si percuotono le mie chiome, precipitano al suolo copiosi frutti privi di fumaggine o larve di mosche, e che danno ancora un olio buono, fragrante, il cui colore oscilla tra il verde e l’ambra. Accetto tuttavia la sorte senza malanimo. Conosco già, attraverso la memoria comune della mia specie, la pena del vivere; d’altra parte, non sono cresciuto nel solco di una foresta rigogliosa o sul crinale fresco di una collina; da tempo immemore fronteggio l’arido Scirocco che soffia su questa brulla pianura poco lontana dal mare, e in un frastuono di cicale il mio fusto appare come piagato da nodi e cicatrici per un sole che talvolta si fa implacabile, crudele. Non per questo deploro l’esistenza toccatami in sorte; nascere alberi, dopotutto, è meraviglioso: hai radici che affondano con solidità nel grembo di nostra madre terra e nel contempo sei libero di slanciare con gioia i tuoi rami verso il cielo infinito. Vi è forse un’esistenza che possa compararsi in termini di bellezza e saggezza? Appartengo, peraltro, alla preziosa schiatta degli ulivi grigioverdi; abbiamo sagome contorte, bizzarre, con facce assai espressive, tal che ci distinguiamo decisamente gli uni dagli altri. Spesso i passanti umani si fermano a osservarci con stupore, talvolta con inquietudine, quasi rispecchiassimo certi tratti dei loro volti. Siamo nondimeno una razza antica, così prossima e abituata all’uomo da comprenderne i bisogni, le pazzie, le fantasie più riposte. 

Ero un virgulto in procinto di essere messo a dimora, quando mi accadde di ascoltare fiabe incantevoli sulla nostra genesi. A raccontarle erano coloro che mi costipavano nel terriccio affinché attecchissi al suolo. La nostra stirpe arborea, si dicevano quelle voci dotte, la si deve ad una gara tra gli dei immortali; accadde che Atena e Poseidone si sfidassero su chi fosse in grado di offrire il dono più bello e prezioso agli uomini. Zeus padre, arbitro della contesa, stabilì che a vincere non fosse il signore del mare Poseidone, che pur aveva proposto un cavallo leggiadro e potente, ma la sapiente Atena, la quale percuotendo la roccia con la lancia fece scaturire dalla terra un ulivo bellissimo dalle foglie lucenti, pianta medicamentosa, nutrimento per le genti. Oh sì, gli umani sanno raccontare bene certe storie. L’argento delle nostre foglie lo dobbiamo a Iside, dea egizia della luna, che insegnò alle moltitudini ad estrarre l’olio dalle nostre olive. Siamo simbolo di pace. Volando dall’arca per visitare il mondo sommerso dalle acque, una colomba ritornò con un nostro ramoscello stretto nel becco, dimostrando con ciò che l’ira di Dio si era placata e dunque poteva ripristinarsi l’alleanza. 

Ora, fratello uomo, tu ti appresti a uccidermi con la tua solita, crudele innocenza. Sollevi l’ascia per infliggermi il primo colpo, e già riportarmi a vita nuova trasformandomi in un oggetto inanimato, che sia un tavolo, una sedia, una ciotola o chissà cos’altro. Non ti sfiora neppure il sospetto che noi alberi si possa soffrire, che un rametto spezzato esprima una richiesta d’aiuto o che il ricordo di un’eccessiva potatura possa ancora infliggerci angoscia sino allo struggimento. Conosco, del resto, il pensiero pratico di voi umani; un prato verde brulicante di teneri fiori non è che una custodia di semi, un fiume d’acque cristalline una potenziale forza liquida, la montagna maestosa una cava di pietra da sfruttare, un bosco null’altro che una piantagione in grado di dar reddito. Sì, il mondo intero è in funzione dell’utile, di quella imponderabile vostra ansia di dominio destinata a sterminarci tutti. Ma finché potremo noi restiamo gli ulivi dalle foglie grigio argento, mai sazi del cielo azzurro. Un giorno, chissà, pagherete persino qualcosa per ammirarci dietro la teca esposta in un museo. 

Rispondi