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L’Aleph – Jorge Luis Borges

Lo scrittore e poeta argentino non ha bisogno di presentazioni. Autore di fama
mondiale, ha impresso alla letteratura mondiale il suo marchio di fabbrica
inconfondibile: una cultura e una creatività sterminate hanno dato vita ad un’opera di
valore inestimabile.
Lo ricordiamo qui con uno dei suoi racconti più celebri, in cui è riuscito a dar voce
all’inesprimibile.
Buona lettura!

L’ALEPH (1949)
di Jorge Luis Borges

Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione
di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato
che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la
mia timorosa memoria a stento abbraccia? I mistici, in simili circostanze, son
prodighi di emblemi: per significare la divinità, un persiano parla d’un uccello che in
qualche modo è tutti gli uccelli; Alanus de Insulis, d’una sfera di cui il centro è
dappertutto e la circonferenza in nessun luogo; Ezechiele, di un angelo con quattro
volti che si dirige contemporaneamente a Oriente e a Occidente, a Nord e a Sud. (Non
invano ricordo codeste inconcepibili analogie; esse hanno una qualche relazione con
l’Aleph.) Forse gli dèi non mi negherebbero la scoperta d’una immagine equivalente,
ma questa relazione resterebbe contaminata di letteratura, di falsità. D’altronde, il
problema centrale era insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme
infinito. In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti gradevoli o atroci; nessuno
di essi mi stupì quanto il fatto che tutti occupassero lo stesso punto, senza
sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò
che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi
intollerabile fulgore. Dapprima credetti ruotasse; poi compresi che quel movimento
era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro
dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto,
senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio)
era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi
il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, Vidi un’argentea
ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi
infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi
del pianeta e nessuno mi riflette, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse
mattonelle che trentanni prima avevo viste nell’andito di una casa di via Fray Bentos
vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti
equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non
dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un

cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di
Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon
Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo
meravigliarmi del fatto che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e
perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un
tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la
mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto
tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su
una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i
sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di
Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul
pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte
le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto
della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise,
che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita,
vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la
circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione
della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo
l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e
provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e
supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato:
l’inconcepibile universo.
Sentii infinita venerazione, infinita pena.

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