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Johan B. – “Ultimo atto”

Un libro senza una trama né uno scopo preciso. “Ultimo atto” è un flusso di coscienza, un testo del tutto atipico. È scritto senza moralismo, con pragmatismo e crudo realismo.

Spesso alle domande non c’è una vera risposta, al contrario di altri libri che cercano di fornirla. Per esempio, perché l’autore sceglie di non andare mai a capo, creando pagine e pagine fitte senza respiro? Per Johan B, il motivo è banale: “Non sopportavo come andava a capo Word mentre scrivevo, creava troppo spazio tra una riga e l’altra. Così ho smesso di premere invio. I periodi lunghi e l’assenza di pause possono essere letti come un semplice susseguirsi di pensieri”.

La sua opera non è ragionata. Semplicemente, è. L’autore, che di sé non vuole svelare niente, se non di essere egocentrico (e di ritenersi bellissimo, scherza), non intende far fare al lettore un esame di coscienza. Non ha un vero scopo. Ha scritto perché aveva modo di scrivere, in poche serate, quando aveva tra i 16 e i 17 anni. Ora ne ha 19.

Di cosa parla questo libro che è atipico e geniale? Atipico nella forma, geniale perché, pur senza volerlo, è diverso da ogni altro. Parla di tutto dal punto di vista del niente, o almeno questa è la premessa iniziale.

L’idea di sovvertire le aspettative di chi pensa si tratti di un testo intimista, poi, è divertente”, spiega Johan. “Quando si parla di umanità, di vita, alla gente piace riempirsi la bocca di belle parole e buoni sentimenti, associando lo stesso termine “umano” a dettagli come l’empatia e la pietà. E nei lavori più introspettivi si fa sempre leva su questi aspetti, dipingendo magari protagonisti non proprio esemplari come comunque meritevoli di essere riconosciuti come persone, ma perché questo avvenga deve subentrare l’autocommiserazione, o il rammarico. Qui il lettore deve essere pronto a vedere il niente più totale, qualcosa che non potrà mai rispondergli o assomigliargli a prescindere da quanto la distorca, nulla in cui rivedersi”.

Insomma, Johan non chiarisce cosa è “Ultimo atto”, ma cosa non è: “La cosa più sbagliata che si possa trarre dalla lettura è che Ultimo Atto sia stato scritto da un qualche pulpito di angoscia, tristezza, depressione, o fragilità. Si tratta dell’opposto: scrivo soltanto di ciò che so guardare, e non mi tocca niente. L’io parlante fa i suoi discorsi da un piedistallo di superiorità, non da una posizione che subisce. Perché c’è chi è così, c’è a chi non succede. In realtà io sono una persona ottimista. Immagino dal testo non si evinca, ma è così. Sembro un nichilista cinico, ma in realtà la corrente a cui più mi avvicino è l’esistenzialismo”.

Per l’autore, è un trampolino di lancio. Vive la scrittura non come sogno e ambizione ma, semplicemente, come qualcosa che sa fare, e sta lavorando da tempo a un romanzo. “Verranno esplorate e ampliate tutte le sfaccettature dell’umanità attraverso i personaggi. Quindi non ci sarà sempre e solo cattiveria”.

Di sé, dice solo che “Johan vive”. Non è uno pseudonimo, ma il nome che ha scelto per sé anche al di là dell’ambito lavorativo.

“Ultimo atto” non si definisce: si deve leggere. E capire? Forse. Anche se probabilmente non c’è niente da capire veramente. O c’è tutto. Al lettore la sentenza.

Paola Bernasconi

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